Dott. Paolo Musso

Università di Genova - Dipartimento di Filosofia - Sezione di Epistemologia

musso@nous.unige.it

 

Tra leggenda e storia: i linguaggi del SETI

Relazione tenuta in occasione del

"10 Simposio Mondiale sulla Esplorazione dello Spazio e la Vita nel Cosmo"

sul tema

"Uomo, Universo, ET: colonizzatori e colonizzati"

Repubblica di San Marino, 6-7 Maggio 2000

 

Credo di non sbagliare se dico che quando si parla di linguaggio per comunicazioni extraterrestri la prima idea che viene in mente è quella del linguaggio matematico, in genere concretizzantesi nell’immagine di una sequenza di numeri primi.

Questo perché tale immagine è stata utilizzata spesso in film, libri e perfino fumetti di successo (da Contact a Independence Day fino a Martin Mystère), in quanto da un lato può essere facilmente visualizzata e dall’altro si presta molto bene ad una presentazione "ad effetto" dell’argomento.

In realtà, però, come vedremo, al giorno d’oggi questa è solo una delle possibili opzioni (probabilmente nemmeno la migliore, e in ogni caso certamente non autosufficiente) e comunque per farne davvero un linguaggio bisogna andare ben oltre i soli numeri primi.

Nella prima parte del mio intervento, perciò, vi farò vedere quella che è stata la storia di questa evoluzione attraverso le immagini dei pochi ma celebri tentativi di comporre un messaggio che sono stati effettivamente elaborati nel passato, cercando di far vedere cosa funzionava e cosa no. Poi vi dirò qual è l’impostazione che oggi si tende a privilegiare (e che a me sembra più promettente) e perché. Infine chiuderò con una considerazione generale su questi tentativi con la quale mi riallaccerò in modo più specifico al titolo del Simposio di quest’anno

 

1. I fatti innanzitutto.

La storia del linguaggio del SETI

La discussione sui possibili metodi per comunicare con ipotetici esseri extraterrestri (pensati allora come abitanti di altri pianeti vicini al nostro, nel Sistema Solare) risale in realtà già alla prima metà dell''800, ben prima della scoperta delle onde radio e della scelta di utilizzarle a questo scopo, e prosegue per un secolo, per poi riprendere, sulla stessa scia ma con rinnovato vigore, negli anni '60, quando la ricerca spaziale ha un grande sviluppo e il programma SETI propriamente detto muove i suoi primi passi.

Come vedremo subito, le linee essenziali delle tre principali strategie ancor oggi seguite vennero delineate quasi immediatamente, fin da quei tempi pionieristici.

1.1 Trasmissione diretta di immagini (fase pionieristica).

La prima strategia proposta fu quella di mostrare immagini che potessero essere "viste" dai telescopi ottici della civiltà extraterrestre: quest'ipotesi era infatti coerente con quanto sostenuto dalle teorie astronomiche del tempo che credevano plausibile l'idea di una vita extraterrestre nel nostro sistema solare.

Sembra che il primo a porsi il problema sia stato il matematico Karl Friederich Gauss, che a quanto pare propose di tracciare un gigantesco triangolo rettangolo in un'area della Siberia, piantando ampie strisce di alberi in modo da formare i tre lati e coltivando a grano l'interno, per ottenere un colore uniforme; una variante era quella di rappresentare il teorema di Pitagora costruendo, nel modo illustrato prima, su ogni lato del triangolo un quadrato. Parallelamente, a Vienna, l'astronomo Joseph Johann Von Littrow propose di scavare, nel Sahara, dei canali che formassero figure geometriche di 30 km di lato da riempire, di notte, con kerosene a cui sarebbe stato dato fuoco (le relative figure sono disponibili in www.seti-inst.edu/science/signals.html ).

All'inizio del '900, quando l'idea di una navicella spaziale iniziava a essere concepibile (e le speranze di trovare la vita intelligente nel nostro Sistema Solare a diminuire), Robert Goddard propose di utilizzare sì delle immagini, ma di inciderle su una placca metallica da mettere a bordo della navicella, idea che è stata poi effettivamente messa in pratica alcuni anni fa, come vedremo fra poco.

1.2 Trasmissione di immagini in codice (fase pionieristica).

Il primo a porsi il problema, se non di un vero e proprio linguaggio, per lo meno di un codice fu invece C. Cros nella seconda metà dell'’800. In un primo tempo egli aveva semplicemente proposto al governo francese di costruire un sistema di specchi per riflettere la luce del Sole verso Marte, pianeta per lungo tempo creduto abitato, in modo da regolare periodicamente la luce riflessa come quella di un faro. Poi, però, riprendendo l'idea di trasmettere immagini geometriche, pensò di trasmetterle con il suo sistema di specchi, codificate in sequenze di impulsi luminosi, ciascuno dei quali doveva rappresentare un numero. Il codice scelto era che ogni numero rappresentava una quantità corrispondente di "pallini" di un certo colore (p. es. bianchi), quello successivo una analoga quantità di "pallini" di colore opposto (p. es. neri), quello successivo ancora di nuovo bianchi e così via. La somma dei numeri di ciascuna sequenza doveva essere costante, in modo che allineandole una sotto l'altra, nell'ordine di invio, si avesse la ricostruzione bidimensionale dell’immagine.

Uno schema simile, ma con una convenzione ancora più semplice, venne proposto nel 1920 da H. e C. Nieman. In esso infatti, invece di trasmettere numeri, si inviavano delle serie di segnali punto-linea, come nell’alfabeto Morse. Ogni punto o linea sarebbe poi stato sostituito da un "pallino", come nell'esempio sopra, di due colori diversi, a seconda che fosse un punto o una linea, e anche qui le serie (sempre formate da un numero uguale di impulsi) sarebbero poi state incolonnate una sotto l'altra in modo da ricostruire l'immagine. Al di là delle discussioni sul contenuto del messaggio, tutte le proposte di comunicazione che prevedano la trasmissione di immagini si basano ancor oggi su questo metodo (che è poi quello del codice binario o digitale, utilizzato anche dai computer), in quanto è il più semplice ed universale che si possa concepire.

1.3 Linguaggio matematico (fase pionieristica).

Intanto nel 1896 F. Galton aveva suggerito un approccio differente: prima di inviare delle immagini bidimensionali, egli riteneva infatti più utile spedire una sorta di introduzione alla matematica, in modo tale da essere in grado di trasmettere messaggi che descrivessero gli oggetti attraverso le loro misure anziché direttamente le immagini.

Siccome questo, come dicevo, è il metodo più celebre, lo tratteremo per primo. Del resto, pur essendo stato proposto per ultimo, esso è stato anche il primo ad essere effettivamente ripreso in forma sistematica in epoca moderna,

1.4 Linguaggio matematico (tempi moderni).

Già nel 1953, infatti, L. Hogben nel suo articolo Astraglossa, o primi passi nella sintassi celeste e, sulla sua scia, Morrison avevano suggerito, come primi passi, l’invio di numeri rappresentati come impulsi ordinari, di forma rettangolare, e dei concetti matematici basilari "più", "meno" e "uguale", rappresentati invece da un radioglifico, un segnale con una forma caratteristica. Semplici esemplificazioni aritmetiche avrebbero condotto gli extraterrestri alla comprensione di questi simboli, il che, successivamente, avrebbe permesso l’introduzione di p e, per suo tramite, del concetto di numero irrazionale.

Partendo da questo spunto, Hans Freudenthal, professore di matematica a Utrecht, in Olanda, quando ancora Drake stava appena iniziando le sue prime, pionieristiche ricerche, elaborò un linguaggio che potesse essere veicolo di comunicazione tra esseri che avessero in comune soltanto l’intelligenza e null’altro e che battezzò "Lincos" (abbreviazione per "lingua cosmica", in latino).

Il linguaggio logico sembrava al nostro autore il più adatto per la comunicazione interstellare soprattutto per il suo carattere formale, ovvero perché la correttezza dei ragionamenti non dipende dal contenuto espresso dagli enunciati ma soltanto dalla loro forma. Freudenthal si proponeva dunque di costruire un sistema formale, con un linguaggio (alfabeto e regole di formazione delle formule del linguaggio) e un calcolo (assiomi e regole da applicare); l’aspetto semantico delle espressioni -cioè il legame con la realtà- doveva invece essere completamente reciso, perché i riceventi extraterrestri avrebbero potuto non essere in grado di comprenderlo.

Tuttavia Freudenthal non intendeva limitarsi alla sola matematica, ma si proponeva di andare ben oltre. Il libro è dunque concepito come una lezione linguistica, in cui, passo dopo passo, vengono introdotti lessico e sintassi. Esso inizia presentando, come Morrison e Hogben avevano proposto, i concetti matematici elementari, ma, immediatamente dopo, procede ad illustrare concetti astratti. Per esempio, per introdurre l’idea di giusto e di sbagliato si fanno affermazioni matematiche esatte a cui si fa seguire alla fine la nuova parola "bene" e, in seguito, si fanno affermazioni matematiche errate alla fine delle quali si scrive la corrispondente parola nuova "male", e così via per altri concetti astratti come onestà, menzogna... ecc. Il metodo usato qui è il dialogo: gli "attori" del dialogo spiegano il significato dei nuovi vocaboli. Pertanto, dopo il primo capitolo "matematica" gli altri sono dedicati, nell’ordine, a: "tempo", "comportamento", "spazio -moto - massa", "materia", "Terra", "vita", così da fornire ai riceventi il panorama più ampio possibile, non solo delle nostre conoscenza, ma dell’intera vita terrestre. L’autore distingue chiaramente tra quello che nel libro è il Lincos scritto e quello che sarà utilizzato per la trasmissione radio (che tuttavia non si capisce bene come dovrebbe essere). Per esprimere graficamente i radio segnali Freudenthal usa diversi simboli: i triletterali (hom, mat, pat, msc) sono di origine latina (egli era infatti convinto che questa fosse la lingua "naturale" dei dotti e che perciò fosse la sola degna di servire ad un compito così nobile), altri logici (Ù , = , Î , Ç , È , Ì , ~), usati da Peano e Russell-Whitehead, altri sono matematici (10, +), altri ancora sono presi in prestito da altre scienze, alcuni infine sono nomi propri d’individui e per questo arbitrari (Ha, Hb, Hc).

Il risultato non era esattamente quel prodigio di chiarezza che Freudenthal pretendeva, anche perché già la stessa versione "terrestre" del discorso, prima ancora della sua traduzione simbolica, risultava piuttosto singolare. Ecco come, per esempio, egli intendeva comunicare le nozioni essenziali circa la generazione degli esseri umani: "L’esistenza di un corpo umano comincia qualche tempo prima di quella dell’essere umano medesimo. Lo stesso vale per alcuni animali. Mat, madre. Pat, padre. Prima dell’esistenza individuale di un essere umano, il suo corpo è parte del corpo di sua madre. Esso è originato da una parte del corpo di sua madre e da una parte del corpo di suo padre." Se devo essere sincero, non mi sembra molto più comprensibile del testo in linguaggio formalizzato...

Come Freudenthal dichiarò esplicitamente nell’introduzione al suo celebre saggio Lincos: Design of a Language for Cosmic Intercourse" (North Holland, Amsterdam, 1960), le sue principali fonti di ispirazione erano la Characteristica Universalis di Leibniz, il Formulario di Peano e i Principia Mathematica di Russell e Whitehead: vale a dire, in buona sostanza, il programma del neopositivismo logico. Che tale programma fosse stato dimostrato impossibile per la matematica già nel 1931 dai celebri Teoremi di incompletezza di Gödel e che, più in generale, il progetto di "costruzione logica" del mondo della filosofia neopositivista, già ampiamente messo in crisi da Popper, stesse per crollare definitivamente, di lì a un paio d’anni, sotto i colpi di Kuhn e Feyerabend non parve evidentemente preoccupare più di tanto il Nostro, che confidava addirittura di poter "coprire con il Lincos l’intero campo dell’umana esperienza" (p. 13), comprendente fra l’altro "il modo di fischiare al proprio cane, le buone maniere e il modo di comportarsi nelle diverse occasioni e un sistema di punizioni quando siano trasgredite alcune norme" (cfr. Valeria Ascheri, Il problema del linguaggio in SETI, tesi di laurea non ancora pubblicata, p. 86; peraltro Freudenthal riconobbe che nel suo sistema c’erano ancora dei difetti e promise una seconda edizione in cui questi sarebbero stati definitivamente eliminati: ovviamente la stiamo ancora aspettando).

Nonostante la sua apparente (o reale) follia, alcune delle idee di Freudenthal erano però valide.

La matematica, in effetti, essendo basata sulle caratteristiche più generali della realtà fisica (cfr. il mio Poster Paper The Problem of SETI Language. Is Mathematics Really Universal? presentato a Bioastronomy 99), deve necessariamente essere la stessa dovunque (anche se altre civiltà potrebbero essere in possesso di conoscenze più avanzate delle nostre) ed inoltre può effettivamente essere espressa in modo da essere comprensibile a chiunque, proprio facendo leva su tali caratteristiche: un semplice esempio si può vedere in www.seti-inst.edu/science/signals4.html.

Ed è altresì vero che basandosi su di essa si possono comunicare alcuni concetti astratti, validi non solamente in matematica. Ecco, per esempio, come nel suo celebre libro (poi anche film) Contact (BUR, Milano, 1997) Carl Sagan procede per comunicare i concetti di "vero" e "falso", non molto diversamente da come intendeva Freudenthal (pp. 216-217):

<<1A1B2Z

1A2B3Z

1A7B8Z

"Che cos’è secondo lei?"

"Il mio tesserino della scuola superiore? Intendi dire che la A sta per una combinazione di punti e di linee, e che la B sta per una differente combinazione di punti e di linee, e così via?"

"Esattamente. Si sa cosa significano uno o due, ma non si conosce il significato di A e B. Che cosa le dice una sequenza di questo tipo?"

"A significa ‘più’ e B significa ‘uguale’. E’ così?"

"Bene. Ma non comprendiamo ancora il significato di Z, giusto? Adesso sta scrivendo":

1A2B4Y

"Capisce?"

"Forse. Dammene un altro che termini in Y".

2000A4000B0Y

"Okay, credo di esserci arrivata. Purché non legga gli ultimi tre simboli come una parola, Z significa vero e Y falso".

Il problema è che tutto ciò resta comunque limitato. Il rischio è che alla fine tutta questa fatica non porti molta più informazione di un mero self-proclaiming message (cioè di un messaggio con cui si comunica esclusivamente il fatto della propria esistenza, senza alcuna ulteriore informazione). Come ha notato il filosofo del linguaggio Neil Tennant in un suo sferzante saggio (The decoding problem: do we need to search for extraterrestrial intelligence in order to search for extraterrestrial Intelligence?, in SPIE Proceedings, vol. 1867, pp. 50-59), "ciò che è proclamato non sarà appena <<Hey, siamo qua>>, ma piuttosto <<Hey, siamo qua, e quel che più conta, sappiamo un po’ di matematica". Il che, come nota ancora Tennant, "non sarà terribilmente informativo", dato che per mandare qualsiasi messaggio è necessario avere delle apparecchiature adatte, sicché "anche il più scarno messaggio self-proclaiming <<Hey, siamo qua>> ha, come suo corollario pragmatico, <<...e quel che più conta, abbiamo dei radiotrasmettitori>>" (p. 56).

Tuttavia proprio per questa ragione è forse possibile estendere la base di conoscenze comuni. Dopo tutto, per poter disporre di radiotrasmettitori in grado di comunicare tra loro è necessario avere conoscenze scientifiche abbastanza avanzate. Siccome le leggi della natura sono le stesse in tutto l’universo, e siccome in gran parte possono essere espresse in forma matematica, non dovrebbe essere impossibile usare il linguaggio matematico stesso per comunicare anche la nostra scienza in un modo universalmente comprensibile.

Questo è in effetti ciò che viene ipotizzato ancora da Sagan in Contact, e questo è anche stato effettivamente realizzato, almeno in parte, da Devito e Oehrle in un loro articolo del 1990 (A language based on the fundamental facts of science, in "Journal of the British Interplanetary Society", vol. 43, pp. 561-568). Per esempio, è chiaro che chiunque abbia una benché minima cognizione scientifica non può non riconoscere in una serie di numeri da 1 a 92, ciascuno accoppiato con un diverso simbolo, l’elenco degli elementi chimici (per essere il più sicuri possibile di farsi capire si potrebbe anche ricorrere a più definizioni convergenti: per esempio i nostri due autori dopo il numero atomico usano anche il peso atomico e il numero di Avogadro). E una volta in possesso dei loro simboli, nonché di quelli della matematica precedentemente acquisiti, con i quali indicare le loro combinazioni, si può fare davvero molta strada.

Il rischio anche stavolta, però, non è tanto di non capirsi, quanto di ricadere nella situazione precedente. Parafrasando Tennant, potremmo dire che stavolta "ciò che è proclamato non sarà appena <<Hey, siamo qua>>, ma piuttosto <<Hey, siamo qua, e quel che più conta, sappiamo un po’ di chimica". Il che, di nuovo, "non sarà terribilmente informativo", dato che è proprio ciò che ci aspetteremmo da chiunque sia capace di costruire dei sofisticati radiotrasmettitori. Certamente se ad entrare in contatto fossero due civiltà di diverso livello tecnologico quella più evoluta potrebbe tentare di far leva sulle conoscenze comuni per trasmetterne di nuove: ciò tuttavia sarebbe interessante solo per l’altra, e solo a patto che il tempo necessario al messaggio per giungere a destinazione sia inferiore a quello necessario per arrivare a fare le relative scoperte con i propri mezzi, il che, date le distanze implicate, non è poi così scontato.

Il vero problema, comunque, è che in ogni caso non si riuscirebbe ad oltrepassare l’ambito meramente scientifico, che è certamente importante, ma altrettanto certamente è ben lungi dall’essere tutto. La scienza, infatti, per sua natura si occupa solo di ciò che è descrivibile da leggi universali: ma esse, proprio perché universali, difficilmente permetterebbero di descrivere gli aspetti più peculiari (e proprio perciò più interessanti) della nostra realtà, che, proprio in quanto tali, sono invece particolari. E questo è il motivo per cui nei (pochi) tentativi di comunicazione fin qui effettivamente tentati si è sempre finiti per seguire un’altra strada.

1.5 Trasmissione diretta di immagini (tempi moderni).

Come già anticipato, il suggerimento pionieristico di Goddard è stato poi effettivamente messo in opera in occasione del lancio di tre sonde interplanetarie (costruite per scopi completamente differenti), le Pioneer 10 e 11 e il Voyager. Ognuna di esse ha a bordo una placca dove sono state incise immagini di vario tipo, che, se ritrovate da intelligenze extraterrestri, dovrebbero fornire loro molte informazioni, almeno secondo l'intenzione dei loro ideatori.

Vediamo il loro contenuto in particolare. Sulle rispettive placche delle sonde Pioneer sono raffigurati i seguenti elementi: due figure umane, un uomo con l'avambraccio alzato e il palmo della mano aperta in segno di saluto e una donna; dietro di loro la forma schematizzata del Pioneer stesso; nella parte inferiore della placca vi è la stessa navicella, raffigurata in scala più ridotta, e il suo tragitto nel sistema solare, disegno dal quale si dovrebbe arguire il suo punto di partenza, il nostro pianeta, che è il terzo puntino dopo il Sole. Inoltre, nella parte superiore, si può vedere raffigurato con due cerchi uniti tra loro da una linea orizzontale l'atomo d'idrogeno e il momento di rotazione dell'elettrone. Infine vi è un ultimo diagramma da analizzare posto al centro della placca: quindici linee che s'incontrano in un punto e che dovrebbero indicare la posizione del nostro pianeta, al centro, in relazione alle quindici pulsar più evidenti finora osservate.

F. Drake e C. e L. Sagan, tra gli autori del messaggio, hanno così descritto la non facile genesi di questo primo tentativo di comunicazione interstellare nel loro articolo Report. A Message from Hearth (in "Science", n.175, pp. 881-884): "Ci sembrò appropriato il fatto che questa navicella (Pioneer 10) portasse alcune indicazioni del luogo, dell'epoca e della natura dei suoi costruttori [...] La questione del contenuto di un messaggio di tal sorta non fu facile. Il messaggio alla fine approvato è, a nostra opinione, una soluzione adeguata ma difficilmente ideale per il problema. Ci fu un intervallo di tempo di sole tre settimane tra la formulazione dell'idea di includere un messaggio su Pioneer 10, il concepire il messaggio e il consegnare la bozza perché fosse incisa" (p. 881). Naturalmente le probabilità che un tale messaggio possa mai raggiungere effettivamente il proprio scopo erano e restano minime, e di ciò gli autori stessi si dimostrarono ben consapevoli, scrivendo, a conclusione del loro articolo: "Noi crediamo che qualsiasi messaggio di questo tipo sarà soggetto inevitabilmente, in forma maggiore o minore, alle limitazioni dei processi umani percettivi e logici. Il messaggio, senza volerlo, ha in sé un contenuto antropocentrico [...] Noi non sappiamo se il messaggio sarà mai trovato o decodificato; ma la sua inclusione nel Pioneer 10 ci sembra un simbolo di speranza di una civiltà vigorosa sulla Terra" (pp. 883-884).

La placca d'oro del Voyager, invece (d'oro perché è uno dei materiali meno deteriorabili), ha in parte gli stessi diagrammi dei Pioneer (l'atomo d'idrogeno e la posizione del nostro pianeta indicato dalle pulsar), ma contiene inoltre foto di uomini, donne e bambini di diverse razze, immagini di capolavori artistici e di bellezze naturali del nostro pianeta nonché un registratore, montato sulla piastra stessa, il cui modo d’utilizzo è illustrato per mezzo di disegni. Questi, se correttamente compresi, dovrebbero permettere l’ascolto di dischi con le voci e i canti prescelti per presentare la nostra civiltà: per esempio vi è il saluto di Jimmy Carter, allora presidente degli Stati Uniti, e dell’allora segretario generale dell’ONU, Kurt Waldheim. Vi sono infine raffigurati, sulla parte destra superiore, i segnali corrispondenti ai suoni che l'apparecchio usato correttamente deve produrre. Il Voyager, ormai uscito dal nostro sistema solare e sperduto nello spazio esterno, è insomma "un piccolo museo in miniatura della razza umana".

A parte le affermazioni di Drake e dei Sagan sull’antropocentrismo (su cui torneremo più avanti), il vero problema è però che una sonda spaziale sperduta nell’immensità dell’universo non ha praticamente nessuna possibilità di essere ritrovata. Per questo motivo, gli sforzi dei ricercatori del SETI si sono concentrati soprattutto sul metodo della trasmissione di immagini in codice, il quale, pur ideato inizialmente per segnalatori ottici, può tuttavia agevolmente essere utilizzato anche per la ben più efficiente (su scala cosmica) comunicazione via radio.

1.6 Trasmissione di immagini in codice (tempi moderni).

Tale metodo è stato utilizzato per la prima volta da Frank Drake nel 1974, quando egli inviò, dal radiotelescopio di Arecibo (Puerto Rico), il primo radiomessaggio della storia intenzionalmente rivolto ad un’altra civiltà, indirizzandolo verso l'ammasso stellare M13, detto l'ammasso di Ercole.

Il codice utilizzato, come già ho detto, è quello suggerito inizialmente da Cros e dai Nieman, il binario, ovvero il codice dei calcolatori moderni, che si basa su due valori soltanto, acceso = 1 e spento = 0. La sola differenza è che oggi, per rappresentare una figura, anziché stringhe separate di impulsi si preferisce inviare una sequenza sola, in modo che sia più chiara l’unità del messaggio.

In www.seti-inst.edu/science/signals3.html si può vedere una figura con il codice completo di un’immagine "di prova" costruita dallo stesso Drake nel 1962, alcuni anni prima di quella poi effettivamente usata ad Arecibo. A prima vista sembrerebbe del tutto incomprensibile, ma, ovviamente, c’è il trucco: perché la ricostruzione dell’immagine non sia ambigua, infatti, si fa in modo che il numero totale di bit (cioè di impulsi) sia il prodotto di due numeri primi, in modo che possa essere scomposto in un modo soltanto (in questo caso è 551, cioè 29 righe per 19 colonne).

Così possiamo ottenere l’immagine riportata ancora in www.seti-inst.edu/science/signals3.html che rappresenta un messaggio proveniente da un’immaginaria civiltà extraterrestre e nella quale sono mostrati:

1) il sistema planetario di provenienza, formato da una stella con 9 pianeti;

2) gli atomi del carbonio e dell’ossigeno;

3) i numeri da 1 a 5 scritti in codice binario;

4) il numero di abitanti di ognuno dei 3 pianeti attualmente popolati (rispettivamente 5, evidentemente una base temporanea, 2000, una colonia permanente, e 4 miliardi, il pianeta di origine);

5) l’immagine di un alieno, di tipo umanoide con gambe più divaricate delle nostre, con accanto la sua altezza (31 unità di misura, che sono state scelte in modo da corrispondere alla lunghezza d’onda del messaggio, circa 10 cm: quindi l’altezza è di 3,10 m) e sotto il suo nome, che Drake ha scherzosamente stabilito essere "Quattro Bit"; la diagonale che va dalla testa dell’alieno ai numeri in binario indicanti la popolazione dei pianeti è invece un segno di congiunzione, per indicare che i numeri stessi si riferiscono alla sua razza.

Il messaggio di Arecibo, costruito con la stessa tecnica, consiste di 1699 impulsi binari (ripetuti più volte, per un totale di 3 minuti di trasmissione). 1699 è il prodotto di 73 per 23, che sono primi, e questo è appunto il formato della trasmissione: 73 righe per 23 colonne. Sostituendo agli 1 quadratini neri e agli 0 quadratini bianchi si ottengono le immagini che compongono il messaggio, visibile in www.seti-inst.edu/science/a-message/html.

Faccio qui incidentalmente notare che in effetti, a rigore, tale metodo non è proprio del tutto esente da ambiguità, perché potremmo anche disporre i nostri bit su 23 righe per 73 colonne. E’ vero che in questo modo non si otterrebbe nessuna figura coerente, e che esseri intelligenti appena degni di questo nome dovrebbero pure, prima o poi, pensare di provare anche nell’altro, però, con tante critiche ben più pretestuose di questa, come ora vedremo, mi stupisce un po’ che nessuno l’abbia ancora notato. Per questo mi sembrerebbe meglio usare un formato che sia dato dal quadrato di un solo numero primo (anziché dal prodotto di due): in questo modo, infatti, potremmo avere davvero una suddivisione univoca (e inoltre i quadrati sono più facili da riconoscere e da scomporre in fattori, soprattutto nel caso di numeri più grandi di quelli usati da Drake, il che mi sembra necessario per ovviare ad alcuni difetti di questi messaggi, come vedremo fra poco).

In ogni caso, tornando alla figura, il valore informativo di questa immagine vuole essere di nuovo molto alto, come nei messaggi delle sonde. Nelle prime righe vengono rappresentati, nell’ordine, i numeri da 1 a 10 -questo perché noi contiamo in base 10, anche se quest’informazione è sconosciuta al ricevente- e successivamente il numero atomico di idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo, che sono gli elementi principali che compongono il nostro corpo. A questo punto c'è un brusco e inaspettato cambiamento di significato: da qui alla fine, infatti, alle figure con significato numerico se ne affiancano altre con un significato visivo, in quanto vi è simboleggiata la doppia elica del DNA, composto dagli elementi sopra elencati, e quindi la figura stilizzata dell'uomo con accanto due numeri, che dovrebbero essere già stati decodificati e compresi, uno per la sua altezza e uno per la popolazione terrestre. Sotto la figura dell'uomo vi sono il Sole e i 9 pianeti, con il quadratino indicante la Terra lievemente spostata verso l'uomo, ad indicare che essa è il suo pianeta. Lo schema termina con una raffigurazione del radiotelescopio da cui il messaggio è stato inviato e col numero corrispondente al diametro del suo specchio.

Dopo questo primo tentativo nessun altro messaggio è stato più spedito da organizzazioni scientifiche o governative. Recentemente però, alla fine di Maggio del 1999, alcuni messaggi modellati secondo la stessa concezione sono stati inviati nello spazio nel corso di tre giorni successivi da un’associazione privata, la Encounter 2001 di Houston, che ha utilizzato il radiotelescopio di Evpatoiya in Ucraina: iniziativa, questa, piuttosto discutibile sul piano etico, in quanto la cessazione delle trasmissioni era stata decisa proprio perché si era stabilito che ogni decisione in merito non potesse essere presa da un gruppo ristretto, per quanto qualificato, ma solo dall’umanità nel suo insieme, e ancor di più se si considera che l’iniziativa stessa presentava un carattere marcatamente commerciale (in parole povere, la Encounter ha spedito i messaggi, ovviamente facendoli pagare cari e salati, per conto di privati -e facoltosi- cittadini che volevano in questo modo "entrare nella storia"). In ogni caso dal punto di vista della tecnica utilizzata non ci sono state novità di rilievo.

Sia il messaggio di Arecibo che quello precedente "di prova", così come anche quelli delle navette, sono risultati assai difficili da decodificare per gli stessi terrestri interpellati, benché almeno quelli dotati di preparazione scientifica vi siano alla fine riusciti, almeno in buona parte. Effettivamente essi contengono alcuni evidenti difetti, di cui parleremo tra poco. Le critiche a cui hanno dato luogo, tuttavia, mi sembrano in gran parte esagerate e fuorvianti e almeno in qualche caso veramente insensate. Esse riflettono però un modo di pensare molto diffuso e influente rispetto a questo problema: la nostra discussione critica, perciò, partirà proprio da qui.

2. Steli di Rosetta e linguaggi Klingon.

Una difesa del senso comune in nome della scienza

2.1 Obiezioni e risposte: discussione critica dei messaggi.

Vi è stato un autore, per esempio (l’esperto di intelligenza artificiale Michael Arbib), che ha criticato il messaggio di Drake del 1962 perché secondo lui potrebbe essere interpretato in maniera completamente diversa, intendendolo come spedito da una razza di esapodi provvisti di grandi teste, semplicemente capovolgendolo. Nella sua interpretazione, la figura dell’esapode verrebbe formata (per la verità in maniera piuttosto approssimativa...) dal gruppo di simboli che dovrebbero rappresentare gli elementi chimici, mentre la figura stilizzata dell’alieno vista alla rovescia potrebbe essere interpretata come quella del satellite usato per spedire il messaggio (cosa già un po’ più verosimile) e gli altri simboli, in mancanza di meglio, vengono visti come "nuvole" che ricoprono il pianeta, essendo posti tra l’esapode e il satellite stesso.

B. e F. Melchiorri hanno invece paragonato la placca del Voyager al celebre disco di Festo, ritrovato nell'isola di Creta, un disco di terracotta sui due lati del quale sono disegnate trenta caselle illustrate con bassorilievi che convergono al centro: gli archeologi hanno formulato diverse ipotesi, ma non sanno ancora come decifrare il messaggio.

Morrison, il fisico che con Cocconi nel '59 aveva proposto per primo l’uso della frequenza "magica" dell’idrogeno per la comunicazione interstellare, prendendo spunto dalle difficoltà presentate dal messaggio di Arecibo ha proposto addirittura di inaugurare una nuova disciplina, "l'anticrittografia", ovvero la tecnica di progettazione di codici facilissimi da decifrare.

E naturalmente nessuno di loro ha mai perso l’occasione di far notare come ogni messaggio del genere sia immancabilmente viziato da "antropocentrismo". Del resto abbiamo visto prima che perfino gli stessi Drake e Sagan, che pure ne erano stati gli ideatori, esprimevano lo stesso dubbio a proposito del messaggio del Pioneer (e di "qualsiasi messaggio di questo tipo").

Ora, a me sembra (e credo che ciascuno lo possa agevolmente verificare da sé) che il problema del messaggio di Arecibo (e in generale di tutti i messaggi iconici fin qui elaborati) sia in realtà uno solo, e cioè l’eccesso di stilizzazione (che almeno nel caso del DNA raggiunge un livello veramente intollerabile e che è altresì responsabile dell’impossibilità di distinguere agevolmente tra numeri in codice binario e figure). Semplicemente, queste non sono immagini del nostro mondo: sono solo una sua rappresentazione iperstilizzata ed ipersemplificata, più o meno del livello che si potrebbe ottenere con i Lego. C’è un istruttivo raccontino di fantascienza in proposito. Un intero pianeta si "innamora" del personaggio raffigurato, identico ai loro dei. Giunti in pellegrinaggio sulla Terra, gli alieni si accorgono che i terrestri sono solo una disgustosa parodia della splendida raffigurazione inviata nel cosmo: non possiedono la splendida simmetria e l’aspetto "quadrateggiante" del disegno. Delusi e infuriati, distruggono la Terra. Insomma, rischiamo di far la fine di Qui, Quo, Qua quando vennero condannati all’impiccaggione per aver osato gonfiare palloncini tondi nella città Inca perduta di Testaquadramento!

Non credo però che gli alieni avrebbero potuto cadere in errore se Drake avesse rappresentato la figura umana per esempio con una fotografia di Valeria Marini (ma, in verità, anche solo con un disegnino della Lucy di Schulz)!

E avrei proprio voluto vedere che razza di esseri si sarebbe dovuto inventare Arbib perché si potessero fraintendere queste immagini semplicemente capovolgendole.

Insomma, secondo me tutto quello che si può legittimamente dire analizzando questi messaggi è che delle rappresentazioni iperstilizzate ed ipersemplificate non sono sufficienti per evitare equivoci (il che tra l’altro non mi sembra sorprendente). Se è così, allora miglioriamole! Ma non capisco proprio come ci si possa attaccare a questo per trarne conseguenze filosofiche epocali circa una pretesa incomprensibilità delle immagini in generale, dato che qui, lo ripeto, immagini non ce ne sono. Né capisco come si possa accusare di essere troppo "antropocentriche" delle figure che semmai lo sono troppo poco, al punto da risultare incomprensibili innanzitutto ai normali esseri umani.

Ci sono però anche altre due obiezioni ricorrenti secondo le quali l’uso di immagini sarebbe comunque "antropocentrico" in un senso più fondamentale.

La prima sostiene ciò in base al fatto che anche sulla Terra vi sono culture che adottano raffigurazioni diverse da quelle che noi consideriamo "realistiche". Un esempio molto citato al proposito è quello degli Abelam della Papua - Nuova Guinea, che rappresentano l’uomo come un triangolo per ragioni rituali (per chi fosse curioso di vederla, anche questa figura è disponibile in www.seti-inst.edu/science/signals4.html).

Un altro è quello degli Indiani Sioux, i quali ritengono che un uomo a cavallo visto di fianco sia rappresentato più correttamente disegnandone comunque entrambe le gambe, perché un uomo ne ha sempre due anche quando una è nascosta.

La mia risposta è che ad essere "antropocentriche" sono semmai queste rappresentazioni, in quanto culturalmente condizionate, laddove una fotografia rappresenta invece semplicemente "ciò che si vede", né più né meno, tant’è vero che tali divergenze teoriche non impediscono affatto né agli Abelam né ai Sioux di riconoscere un uomo in una foto, mentre impediscono a noi di fare altrettanto nelle loro raffigurazioni se non ne conosciamo i presupposti. E qualsiasi civiltà dotata di una tecnologia avanzata dovrebbe avere sviluppato un sufficiente senso del valore universale della rappresentazione oggettiva del mondo (che è alla base della scienza naturale) da non consentire troppi dubbi sul fatto che essa debba essere la prima a venire usata per comunicare, riservandosi eventualmente per un secondo tempo quelle atte ad esprimere simbolismi religiosi o di altro tipo.

La seconda obiezione, più radicale, dice che l’uso di immagini sarebbe "antropocentrico" in quanto presuppone l’uso della vista, mentre non è detto che tutti gli esseri dotati di intelligenza ce l’abbiano.

La mia risposta è che questo può essere vero, ma non riguarda il SETI, perché per esso hanno rilevanza solo gli esseri intelligenti capaci di sviluppare una civiltà tecnologica evoluta (almeno) fino al punto di costruire radiotelescopi. Ora, in primo luogo è assai dubbio che ciò sarebbe possibile senza l’uso di un senso così fondamentale per orientarsi nel mondo come quello della vista (che non a caso sulla Terra si è evoluto almeno tre volte indipendentemente). Ma, soprattutto, ciò sarebbe in ogni caso irrilevante, perché non si tratterebbe di un problema di "linguaggio", ma di interfaccia. Nemmeno noi infatti possiamo vedere gli oggetti della radioastronomia, perché le loro frequenze sono al di fuori dello spettro visibile. Eppure li "vediamo" lo stesso, perché abbiamo costruito un’interfaccia che li traduce per noi in frequenze adatte ai nostri occhi.

Quindi, siccome un radiotelescopio capta comunque un’immagine bidimensionale del cosmo nelle radioonde, sia che essi vedano su frequenze diverse dalle nostre, sia che non vedano proprio, in ogni caso, se hanno radiotelescopi, devono per forza avere anche un’interfaccia che traduca queste immagini in altre che essi possono "leggere" (nel secondo caso -a cui, ripeto, non credo- per esempio potrebbe trattarsi di un’immagine in rilievo, percepibile al tatto). Se così non fosse, infatti, che cosa li costruirebbero a fare?

Non sembra quindi che possano esserci obiezioni di principio all’uso delle immagini digitalizzate nelle comunicazioni SETI.

2.2 Italiano vs. Klingoniano. Perché il linguaggio non è così importante.

Ma, soprattutto, il fatto è che esse sono comunque indispensabili. Per chiarire bene questo punto vorrei tornare un momento sul discorso di Morrison circa l’"anticrittografia". Agli scienziati, si sa (e anche ai filosofi, se è per questo), piace sempre moltissimo poter proporre nuove discipline (anche perché così si creano nuovi posti di lavoro), ma vorrei fare osservare che l’anticrittografia non è affatto da inventare: essa esiste da sempre ed è stata sviluppata, si può dire, da tutta l’umanità nel suo insieme nel corso di tutta la sua storia, coincidendo molto semplicemente con l’evoluzione del linguaggio (che è stato inventato proprio per comunicare il pensiero, e non per mascherarlo, checché ne pensasse Talleyrand) e dei relativi metodi per trasporlo in scrittura, dalle prime pitture sui muri delle caverne fino allo "scientific English" dei giorni nostri. E dal loro studio una cosa emerge con tutta evidenza: la possibilità o impossibilità di decifrare una lingua sconosciuta non dipende per nulla dalla sua maggiore o minore difficoltà intrinseca, ma dalla possibilità o impossibilità di associare ai simboli (cioè alle parole) i loro significati, cioè gli oggetti (non necessariamente materiali) a cui essi si riferiscono.

I geroglifici, per esempio, sono stati decifrati perché si è trovata la stele di Rosetta, non perché qualcuno sia riuscito a penetrare chissà quale segreto della loro struttura (che non esiste).

Inversamente, dell’etrusco conosciamo abbastanza bene il "codice" (interamente l’alfabeto, pronuncia compresa, in parte grammatica e sintassi), ma non sappiamo leggerlo lo stesso perché ignoriamo il significato di quasi tutte le parole (ne sono note, in totale, non più di 300).

Ora, se la costruzione di un linguaggio formalizzato si è rivelata almeno in parte possibile è proprio perché siamo stati in grado di rintracciare una sia pur parziale "stele di Rosetta" (in questo caso fornitaci dalla natura stessa) nelle comuni conoscenze matematiche e scientifiche di base, e non già perché il codice sia comprensibile di per sé, senza un riferimento (almeno implicito) a tale conoscenza comune di base. La miglior riprova di ciò è che chi non ammette (secondo me sbagliando, ma questo è un altro discorso) l’esistenza di tali conoscenze comuni, ipotizzando che gli alieni possano avere una matematica e una scienza completamente (e non solo parzialmente) diverse dalle nostre, in genere non ammette (qui secondo me a ragione, una volta accettata l’ipotesi) neanche la possibilità di una comunicazione quale che sia.

Ciò ha due conseguenze importanti.

In primo luogo, infatti, ne segue l’impossibilità di principio di dare un senso alle parole che non riguardino (direttamente o indirettamente) tali conoscenze comuni soltanto tramite le proprietà interne del codice.

In secondo luogo, e più radicalmente, che in fondo il problema del linguaggio da usare risulta del tutto secondario rispetto a quello della scelta del metodo che deve conferirgli il contenuto semantico. E’ ovviamente meglio, infatti, usare un linguaggio semplice piuttosto che uno complicato, e uno raffinato piuttosto che uno rozzo, ma alla fine ciò che è decisivo è che sia chiaro il meccanismo che collega i simboli col loro significato: come ben sa chiunque abbia tentato almeno una volta di parlare qualche lingua straniera, è infatti perfettamente possibile capire e farsi capire abbastanza bene anche avendo una scarsa padronanza della grammatica, purché si conosca un sufficiente numero di vocaboli, mentre l’inverso è, non che difficile, propriamente impossibile. Ma se la struttura del linguaggio può ancora avere una sia pur relativa importanza, quello che è veramente privo di qualsiasi interesse è il tipo di simbolismo usato: non fa infatti nessuna differenza, ai fini della comprensione, che per indicare il numero 1 si usi appunto il simbolo "1", la parola "uno" in alfabeto italiano, i simboli del Lincos o quelli dell’immaginario alfabeto Klingon di Star Trek.

O meglio, una differenza c’è, ed è che usando un linguaggio già esistente faremmo meno fatica noi a raccapezzarci, potendo più facilmente concentrarci sui problemi veri; mentre i nostri ipotetici partner extraterrestri ne farebbero esattamente la stessa, non un solo grammo di più. In definitiva, dunque, la proposta del celebre astronomo francese Jean Heidmann di trasmettere direttamente l’Enciclopedia Britannica risulta a mio avviso assai meno paradossale di quanto potrebbe sembrare a prima vista. E’ un fatto, tuttavia, che la tendenza generale va esattamente nella direzione opposta: ciò è quantomeno curioso e richiede certamente una spiegazione, che accennerò più avanti e che aprirà la strada alla nostra riflessione finale.

2.3 Gesti e analogie: una questione di immagine.

Ma allora, problemi tecnici e (soprattutto) economici a parte, tutto quello che dovremmo fare sarebbe trasmettere delle fotografie (o, meglio ancora, un film) con le opportune didascalie?

Le cose sono leggermente più complicate. Certamente se volessimo soltanto dare un’idea di come è fatto il nostro mondo e gli esseri che lo abitano la mia risposta sarebbe: assolutamente sì! Non c’è infatti altro modo, stando a quanto detto finora, di far conoscere ad un alieno un particolare oggetto del nostro mondo se non mostrandoglielo.

Tuttavia in questa maniera resterebbero fuori numerose informazioni non banali circa la struttura interna degli oggetti mostrati e, inoltre, tutta la gamma dei concetti astratti.

Una prima, parziale soluzione potrebbe quindi certamente essere costituita dai linguaggi formali che abbiamo visto prima, grazie ai quali è possibile, come si è detto, introdurre almeno i concetti fondamentali della matematica, delle scienze naturali e inoltre alcuni concetti astratti di portata più generale, come per esempio "uguale", "diverso", "maggiore", "minore", "giusto", "sbagliato", "finito", "infinito" e così via. Anche noi infatti usiamo questi concetti in modo analogico, applicandoli a diversi oggetti con (parziali) "slittamenti di significato" determinati dal contesto (per esempio, "giusto" o "sbagliato" in senso morale anziché matematico, "finito" o "infinito" in senso teologico anziché fisico, ecc.). Ma, appunto per questo, sarebbe impossibile far capire ad un interlocutore che stiamo usando un determinato concetto in senso analogico se non applicandolo ad un nuovo oggetto dentro un diverso contesto. E questo contesto, se deve essere diverso da quello scientifico, non potrà, per definizione, essere individuato da un linguaggio costruito interamente sulla scienza. Quindi, per esclusione, dovremo nuovamente far ricorso ad immagini, per esempio usando una scena di pace e una di guerra e contrassegnandole rispettivamente con i simboli (per esempio, nel testo di Sagan, "Z" e "Y") che avevamo precedentemente introdotto per indicare i concetti di "giusto" e "sbagliato" in senso matematico. Non è detto che gli alieni capiscano (anche se a mio parere la ragione, in qualsiasi parte dell’universo esista, non può fare a meno di funzionare in modo analogico, perché altrimenti non sarebbe in grado di svolgere il suo compito più importante, vale a dire quello di confrontarsi con le novità). Tuttavia voglio sottolineare che in questo modo è almeno possibile che lo facciano: mentre se non ci proviamo nemmeno certamente non ci riusciranno.

Una seconda soluzione, anch’essa parziale e quindi non alternativa, bensì complementare alla prima, potrebbe essere quella che è poi la più vecchia del mondo: spiegarsi a gesti.

Ovviamente nel caso di una comunicazione di tipo SETI non lo potremmo fare direttamente. Niente però ci vieta di ricostruire la scena con la solita tecnica del codice binario e di trasmetterla esattamente come le altre immagini puramente descrittive. Dopo molti anni di studi e pur con oscillazioni ricorrenti e non ancora del tutto superate, pare che a questa conclusione sia giunto infine anche Douglas Vakoch, del SETI Institute californiano, forse il massimo esperto modiale del problema, come risulta dal Poster Paper da lui presentato la scorsa estate alle Hawaii in occasione del Convegno Mondiale Triennale di Bioastronomia Bioastronomy 99 (Kona, 2-6 Agosto 1999), nel quale viene illustrato un metodo per costruire una sorta di "filmino" (in 3 dimensioni) in cui un uomo e una donna (rappresentati in modo realistico) illustrano appunto a gesti concetti relativi ad oggetti, parti di oggetti e relazioni tra essi.

Come egli stesso mi ha detto in quella occasione, però, questo metodo lascia fuori i concetti a più elevato grado di astrazione, che sono poi quelli su cui si fondano l’arte, la cultura e la religione, vale a dire tutto ciò che caratterizza la nostra civiltà e che costituisce ciò che noi "siamo" assai più profondamente che la nostra struttura corporea o la nostra composizione chimica.

E’ possibile (benché per nulla affatto sicuro) che combinando i due metodi si possano fare dei passi avanti anche su questo difficile terreno. Quel che è certo è che, in ogni caso, nessuno dei due potrà mai evitare di fare uso di immagini.

2.4 Verso un linguaggio integrato.

In conclusione, dunque, il tipo di linguaggio che io auspico per il SETI del futuro, e verso il quale mi sembra ci si stia, sia pur faticosamente, dirigendo, è un linguaggio integrato, che, su di un impianto base fondamentalmente iconico, sappia inserire opportunamente anche spezzoni di linguaggio formale modellato sulle scienze e sulla matematica.

Quanto ai simboli da utilizzare, dovrebbero essere usati il più possibile quelli dei linguaggi naturali già esistenti, scostandosene solo in caso di vera e comprovata necessità.

2.5 Una conseguenza operativa. Il "Principio di non mediocrità dialettica": self-proclaiming message o Enciclopedia galattica?

Infine, da questa analisi, che per sé è puramente teorica e non ha nulla a che vedere con le tecniche di indagine radioastronomica, si può forse ugualmente trarre almeno un’indicazione che potrebbe risultare utile anche alla ricerca sul campo.

Se infatti quanto fin qui detto è corretto, ne dovrebbe seguire che per trasmettere informazioni interessanti occorre un messaggio molto lungo, se non proprio l’Enciclopedia galattica in stile Heidmann almeno qualcosa di paragonabile come ordine di grandezza. Da ciò parrebbe di poter dedurre una conseguenza, che potremmo chiamare "Principio di non mediocrità dialettica", per simmetria con il cosiddetto "Principio di mediocrità cosmica".

Mentre infatti quest’ultimo afferma che quanto alla possibilità di un dialogo con altre civiltà è la mediocrità che "paga", perché la loro esistenza e la possibilità di contatti con esse sono rese plausibili dal fatto che la Terra e l’umanità non sono speciali, ma nella "media" cosmica, il "Principio di non mediocrità dialettica" afferma al contrario che quanto alla concreta effettuazione di tale dialogo a "pagare" è invece l’"estremismo", giacché i messaggi di media lunghezza dovrebbero essere esclusi (in quanto impossibilitati ad essere realmente più informativi di quelli brevi), le possibilità riducendosi dunque all’alternativa secca tra informazione minima ("Hey, siamo qui!", messaggio meramente self-proclaiming, al massimo munito di un piccolo corredo di immagini tipo "album di famiglia cosmico") e informazione massima o comunque estremamente elevata (l’Enciclopedia stessa).

Dato inoltre il costo spropositato in termini di tempo e di risorse che richiederebbero la compilazione e poi la trasmissione (ripetuta) di quest’ultima a caso nello spazio, sembrerebbe ragionevole aspettarsi che almeno il primo contatto debba avvenire attraverso un messaggio del primo tipo. Anche da un’analisi condotta in base a metodi e principi indipendenti come la presente risulterebbe dunque confermata l’ipotesi, formulata in precedenza dai radioastronomi principalmente per ragioni tecniche, che il tipo di messaggio intenzionale in cui è più probabile imbattersi sia, in definitiva, una semplice portante radio.

 

3. La "sindrome del cargo" in agguato.

Perché un alieno potrebbe essere restio a prendere contatto con noi

Vorrei concludere tentando, come già annunciato, di rispondere alla domanda sul perché nel dibattito sul linguaggio del SETI spesso alle (non piccole) difficoltà già esistenti se ne aggiungano altre che derivano da complicazioni apparentemente inutili.

Certamente più ragioni vi concorrono. Oltre al desiderio (che per certi aspetti per chi opera nel mondo della ricerca è anche una necessità) di essere originali a tutti i costi, in un campo, per giunta, dove le opzioni possibili non sono molte e sono già state tutte discusse a fondo, penso giochino un ruolo importante da un lato la mentalità, tipicamente americana (e che peraltro ha anche i suoi lati positivi), di voler sempre esaminare tutte le possibilità, anche quelle apparentemente più astruse ed improbabili, dall’altro il peso che ha nel mondo anglosassone la filosofia di impostazione analitica, la cui impronta si riconosce chiaramente in alcuni snodi cruciali che ho precedentemente tentato di evidenziare. Ma credo vi sia anche dell’altro.

Dicevo prima che trovo molto curioso, per esempio, che quasi tutti si sentano in dovere di inventare una simbologia apposita quando andrebbe benissimo una qualsiasi già in uso, dato che tutte sono convenzionali. Ma, a pensarci, forse si potrebbe dire lo stesso della stilizzazione così spinta dei messaggi iconici: perché infatti tutti seguono questa strada, di per sé innaturale, e nessuno suggerisce semplicemente di aumentare la definizione in modo da servirsi delle immagini reali degli oggetti, come ho fatto io? La risposta alla fine è sempre la stessa: si vuole evitare in tutti i modi il rischio dell’"antropocentrismo". Ma abbiamo visto che almeno da questo punto di vista tale timore non è assolutamente giustificato! E allora? Forse la risposta è più banale ed è riassumibile in due parole: troppo facile! Sarebbe troppo facile usare semplicemente la fotografia di un uomo per rappresentare un uomo, la fotografia di un radiotelescopio per rappresentare un radiotelescopio e quella di una molecola di DNA per rappresentare una molecola di DNA: meglio inventare una rappresentazione ad hoc che richieda, per essere capita, almeno un po’ di ingegno e di conoscenze matematiche. Allo stesso modo, una notazione inventata ad hoc per contrassegnare i numeri non dà nessun vantaggio rispetto all’usare le nostre buone, vecchie cifre arabe, però... Appunto! "Buone e vecchie". Ma soprattutto vecchie. Possibile che vadano bene anche per il "linguaggio cosmico"? Troppo facile, troppo banale e soprattutto non abbastanza "scientifico" per un compito così alto.

Lo stesso Vakoch, pur inclinando attualmente, come abbiamo visto, verso un’impostazione più "naturalistica", non rinuncia ad inserirvi elementi paradossali: per esempio proponendo di usare, per illustrare determinate relazioni spaziali, i 5 solidi platonici (quelli composti da poligoni regolari), allo scopo di comunicare un senso di armonia e di bellezza che, nel contesto, c’entra davvero poco; oppure suggerendo che il "filmino" venga costruito in 3 dimensioni anziché in 2 (con tanti saluti alla semplicità e univocità della codifica e con una crescita esponenziale -secondo n3 anziché n2- della lunghezza del messaggio e quindi del dispendio energetico necessario in caso di sua effettiva trasmissione) nell’ipotesi che gli alieni non abbiano il senso della vista e si orientino attraverso il tatto (come se ciò fosse possibile in assenza di un’interfaccia che trasformi il flusso -di per sé comunque unidimensionale- dei bit in un’immagine solida tangibile: la quale interfaccia, se esistesse, sarebbe allora certamente capace di far ciò anche con un’immagine bidimensionale). E’ di nuovo lo stesso meccanismo: va bene, se alla fine questa è l’unica via di uscita usiamo pure le immagini, ma proprio ridursi a fare un filmino con due che si spiegano a gesti, come con i selvaggi... Meglio metterci almeno una spruzzata di idee dal sapore più "nobile": dopo tutto non si tratterebbe forse dell’evento più importante della storia dell’umanità?

Bene, forse questa mia spiegazione è semplicistica, ma proprio non riesco a fare a meno di sospettare che dietro a tutti questi aspetti "curiosi" e altrimenti apparentemente inspiegabili si celi un pizzico almeno di un fenomeno analogo a quello dei cosiddetti "cargo cult", vale a dire l’adorazione degli aerei da trasporto che lanciavano viveri dal cielo come rifornimento per le truppe, diffusasi in alcune isole del Pacifico durante la seconda guerra mondiale e diventata il simbolo della tendenza umana (esistente in realtà da sempre e non ancora scomparsa) a divinizzare impropriamente il progresso tecnologico.

Se ci pensate, nell’immaginario collettivo l’incontro con gli extraterrestri è sempre concepito con caratteri di eccezionalità: in positivo o in negativo, ma comunque di eccezionalità. Eccezionalità, voglio dire, non soltanto per quanto il fatto rappresenterebbe in se stesso (e a cui in ogni caso il 99,9 % dell’umanità continuerebbe a pensare per non più di qualche mese, a dir tanto), ma anche e soprattutto per le modalità concrete del suo svolgersi. Insomma, noi ci possiamo immaginare, e di fatto ci immaginiamo, tale incontro come l’inizio di una nuova era meravigliosa o di una guerra terrificante, ma semplicemente non riusciamo (voglio dire che facciamo fatica anche sforzandoci) a pensarlo come qualcosa di deludente, cioè qualcosa che sul piano pratico finisca per lasciare le cose più o meno come prima. Allo stesso modo, possiamo pensare di ricevere molti generi di messaggi, come abbiamo visto, alcuni totalmente incomprensibili, altri invece capaci di spalancarci abissi prima neanche immaginabili; ma, di nuovo, quello che proprio non riusciamo a concepire è l’ipotesi di un messaggio banale, come per esempio lo spot di un detersivo prima del telegiornale locale, tanto per riprendere una battuta di Tullio Regge: al contrario, un’idea del genere ci appare istintivamente ridicola e grottesca. Eppure non c’è una sola ragione che giustifichi tale atteggiamento: in effetti questo potrebbe essere esattamente quello che sta capitando, e magari proprio in questo preciso momento, agli esterrefatti scienziati del Progetto SETI di Epsilon Eridani. E dunque, perché a loro sì e a noi no? Il motivo è uno solo, mi pare: perché noi proiettiamo (indebitamente) su questo possibile incontro le nostre speranze e paure più profonde, rivestendolo in tal modo di una luce sacrale.

Fin qui non sto dicendo niente di nuovo: quella dell’extraterrestre come angelo o demone tecnologico è infatti una categoria che l’analisi sociologica ha identificato e sviscerato a fondo ormai da tempo. Il sospetto che voglio insinuare è che questo tipo di mentalità abbia una certa presa, maggiore di quanto in genere si voglia ammettere, anche all’interno della comunità scientifica, e che il ricercare sistematicamente tecniche di comunicazione più complicate del necessario ne sia in qualche modo una spia.

Se ho ragione, non c’è da scandalizzarsi per questo: anche gli scienziati, così come i filosofi, sono innanzitutto uomini, e perciò condividono con gli altri uomini del loro tempo le stesse forme culturali e anche gli stessi condizionamenti, più o meno inconsci. Tuttavia personalmente ritengo che questo sia un atteggiamento controproducente, anche dal punto di vista del SETI stesso: e ciò non solo per le complicazioni aggiuntive che rischia di introdurre nell’elaborazione di un linguaggio effettivamente utilizzabile, ma anche perché una ipotetica civiltà aliena più progredita della nostra (non per questo necessariamente più saggia, ma forse almeno più ammaestrata dall’esperienza) potrebbe anche avere qualche remora a rivelare la propria esistenza ad un’altra che dimostri questa sorta di "sudditanza psicologica" nei suoi confronti, perchè ciò potrebbe avere un impatto devastante a causa delle esagerate aspettative (e quindi delle inevitabili, successive delusioni) che si verrebbero in tal modo a creare.

Perfino nell’ipotesi che una civiltà extraterrestre potesse e volesse realmente risolvere i nostri attuali problemi, personalmente dubito che ciò sarebbe auspicabile: si rischierebbe infatti (e così mi riallaccio, alla fine, anche al tema generale di questo Simposio) un vero e proprio "colonialismo cosmico", per quanto in questo caso non imposto e di tipo esclusivamente culturale. In ogni caso sono certo che non sarebbe auspicabile che noi ci aspettassimo questo da loro. Se altri oggi sono più progrediti di noi significa infatti che, prima, hanno affrontato e risolto i nostri stessi problemi con le proprie sole forze. Se ci sono riusciti loro, perché non dovremmo fare lo stesso anche noi?


Torna alla pagina Relazioni